27 Gennaio 2019 - 18.05

Editoriale- La giornata della memoria contro i bastardi del negazionismo

Il 27 gennaio 1945, 74 anni fa, l’Armata Rossa sovietica varcava verso mezzogiorno i cancelli di un luogo che sarebbe diventato il simbolo del genocidio di un popolo; il campo di Auschwitz.

In quel campo situato in territorio polacco (Oswiecim) trovarono circa 7.000 sopravvissuti, abbandonati a se stessi dai tedeschi in fuga. Fra questi c’erano circa una cinquantina di bambini che non raggiungevano gli otto anni d’età, che si erano salvati dai forni solo perché erano stati usati come cavie umane per esperimenti medici.

La contabilità della morte è impossibile, ma solo ad Auschwitz, secondo le valutazioni dell’US Holocaust Memorial Museum, le SS tedesche uccisero circa 960mila ebrei, 74mila polacchi, 21mila rom, 15 mila prigionieri di guerra sovietici ed altre 10mila persone di altre nazionalità.

Ecco perché Auschwitz è diventato giustamente il simbolo dell’Olocausto di un popolo; perché è il luogo in cui morirono più uomini e donne che in ogni altro campo di concentramento nazista, dove storicamente venne perpetrato il più grande omicidio di massa della storia avvenuto in un unico luogo.

Non è quindi un caso se il 1° novembre del 2005 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito il “Giorno della Memoria” per il 27 gennaio di ogni anno; perché è il giorno in cui gli uomini del generale Vicktor Kurochin scoprirono le atrocità compiute in quel lager.

Perché è importante il giorno della Memoria?

Perché come ebbe a dire Dwigth Eisenhower, che oltre che comandante militare fu anche Presidente degli Stati Uniti: “Registrate ora tutte le prove, film, testimoni, perché lungo la strada della storia qualche bastardo si alzerà e dirà che queste cose non sono mai accadute”.

Ed i suoi timori si sono puntualmente verificati, perché il cosiddetto “negazionismo della Shoah” trova sempre più adepti.

Quindi, a mano a mano che coloro che quell’abisso l’hanno toccato diventano sempre meno per ragioni biologiche, e che quindi le loro parole diventano sempre più solo testimonianze scritte, è importante non dimenticare.
Per rispetto ai milioni di donne, bambini, uomini che, varcata la soglia del campo sul cui cancello troneggiava quasi beffardamente la scritta “arbeit macht frei”, che significa “il lavoro rende liberi”, venivano privati degli abiti, delle scarpe, delle catenine, persino dei denti d’oro e dei capelli. E finanche del nome, sostituto da un tatuaggio con un numero di matricola incisa nella carne di un braccio; vera degradazione di un individuo che nei campi valeva meno di uno schiavo.

Fra i tanti filmati che documentano quell’orrore ce n’è uno che mi ha sempre colpito; quello di un ufficiale tedesco che, volendo offrire alla telecamera il volto di una deportata, le metteva un frustino sotto il mento e con quello le sollevava la testa. Impossibile dimenticare il volto rugoso di quella anziana ebrea, ma soprattutto i suoi occhi smarriti, la sua espressione confusa e spaventata, di chi ha già compreso che il suo destino si sta per compiere.

Quando si arriva ad un abisso di orrore e di degrado morale ed umano quale è stata la Shoah, è persino difficile per chi lo ha vissuto raccontarlo e farlo credere. Lo sa bene la sen. Liliana Segre, una superstite dell’Olocausto, che alla bella età di 88 anni continua a testimoniare senza risparmiarsi la sua drammatica esperienza.

Ed al riguardo sono emblematiche le parole del soldato semplice Yakov Vincenko, colui che per primo apri i cancelli di Auschwitz: “Nemmeno noi che abbiamo visto ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare, poi ho capito che sarebbe stato da complice, da colpevole. Così adesso ricordo, anche se non sono riuscito ancora a comprendere”. Quindi, a coloro che vorrebbero che non se parlasse più, argomentando che si tratta ormai di fatti lontani che è meglio dimenticare, bisogna rispondere con fermezza che bisogna invece trasmette alle nuove generazioni il senso della Giornata della Memoria, perché l’uomo non è mai vaccinato contro la malattia della barbarie, come stanno a ricordarci altri genocidi, da quello del popolo armeno, alle vittime del gulag staliniano, dalle stragi perpetrate dai Khmer Rossi in Cambogia alle pulizie etniche nella ex Jugoslavia ed in Ruanda, per finire con i gas usati da Saddam Hussein contro i curdi, definiti un “popolo che non esiste”. Bisogna cioè trasmettere a coloro che ci seguiranno che alla base di ogni politica di sterminio e di annientamento di un popolo c’è sempre l’assenza di democrazia, unita ad una deriva ideologica che fa del nazionalismo esasperato, e della cultura razzista, il metro dell’agire politico.

Molto è stato scritto, altro si potrebbe scrivere e certamente si scriverà. Ma poiché sono convinto che l’anima dei popoli sono i poeti, voglio chiudere con le parole di una canzone, scritta da Francesco Guccini nel 1966, e cantata, oltre che da lui, dagli Equipe 84 e dai Nomadi. Il suo titolo è “la canzone del bambino nel vento – Auschwitz”, e questo è il testo:

“Son morto con altri cento, son morto ch’ero bambino,
passato per il camino e adesso sono nel vento e adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno e adesso sono nel vento, adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio:
è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento, a sorridere qui nel vento.

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento, in polvere qui nel vento.

Ma ancora tuona il cannone e ancora non è contento
di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento e ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà e il vento si poserà.

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà e il vento si poserà
e il vento si poserà”.

Ecco il senso della memoria; la speranza che il vento prima o dopo si posi.

Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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