14 Dicembre 2019 - 9.21

EDITORIALE – La Brexit tra trionfi e incognite

Immagino vi sarete chiesti: perché le elezioni politiche inglesi del 12 dicembre scorso stanno suscitando tanto clamore mediatico?Semplicemente perché il trionfo del Partito Conservatore di Boris Johnson rappresenta una svolta nella storia britannica ed europea.Ma andiamo con ordine.Al di là di tutte le altre considerazioni, le elezioni sono state di fatto un nuovo Referendum sulla Brexit.A nulla è valso il tentativo dei laburisti di spostare l’attenzione su temi sociali, sulle disuguaglianze e sulla sanità, e la scelta di Johnson di martellare gli inglesi esclusivamente sul tema della Brexit alla fine è risultata vincente. Comunque la si pensi, ci sono alcuni punti che le elezioni hanno chiarito.In primis che i britannici erano stanchi del teatrino messo in scena dai loro politici negli ultimi anni, e votando compattamente Johnson hanno chiuso la partita a favore della Brexit.   Inoltre, che se la sinistra continuerà a proporre le consuete vecchie ricette, fatte di nazionalizzazioni, tasse, patrimoniali, patirà altre grosse delusioni, e sarà molto difficile che riesca a prevalere e ad andare al Governo.    E questo vale anche per le sinistre di qualunque Paese, Italia compresa.  Infine che, anche se assume spesso atteggiamenti “pagliacceschi”, Boris Johnson è un vero leader, e la vittoria, prima che dei Conservatori, è sua.Da non trascurare poi il sistema elettorale vigente in Gran Bretagna, che facilita la governabilità.   Un sistema basato sull’uninominale maggioritario a turno unico.  In parole povere, in ogni collegio elettorale risulta eletto il candidato che ottiene la maggioranza dei voti, azzerando i suffragi ottenuti dai partiti che sostenevano gli altri candidati.   Sistema forse ingiusto, in quanto un Partito potrebbe ottenere milioni di voti e nessun seggio parlamentare, ma che ha l’indubbio vantaggio di determinare fin dal minuto successivo alla chiusura delle urne chi ha vinto e chi ha perso.Pensate al nostro sistema, in cui assistiamo ogni volta alla sceneggiata in cui tutti i Partiti sostengono di avere vinto, o almeno di non avere perso.La democrazia inglese semplifica la rappresentanza parlamentare, diversamente dalla Spagna, dove si è votato quattro volte in due anni, dalla Germania, dove la Grande Coalizione vacilla, dalla Francia paralizzata dagli scioperi.A Londra questo non succede, ed infatti  giovedì 12 avete visto che un minuto dopo la chiusura dei seggi gli exit poll davano i numeri della vittoria di Johnson, il giorno dopo la regina gli conferiva l’incarico, e il 19 dicembre, una sola settimana dopo, con il discorso della Regina, di fatto il nuovo Governo sarà insediato ed operativo.Impossibile anche solo immaginarlo in Italia, dove addirittura si sta decidendo di andare verso un sistema proporzionale, con il solo fine di penalizzare i partiti piccoli. Tutto bene quindi?  Strada in discesa?Guardando la nuova carta politica della Gran Bretagna, con il blu dei Conservatori che occupa tutti gli spazi, con l’esclusione di alcune grandi città, sembrerebbe di si.   Ma le cose non stanno proprio così.  Sicuramente a Bruxelles facevano segretamente il tifo per Johnson.  E ciò perché una netta vittoria dei Conservatori rappresenta il miglior risultato per la Ue, il cui problema principale era la grande incertezza che aveva dominato la politica inglese negli ultimi due anni.    Ed il sollievo della diplomazia per questo risultato inequivocabile è stato confermato dall’andamento della Borsa di Londra, e dal balzo in avanti della sterlina. Almeno adesso è tutto molto più chiaro; e salvo sorprese, il 31 gennaio la Gran Bretagna abbandonerà definitivamente l’Unione Europea. Dando per scontato che il nuovo parlamento inglese ratificherà l’accordo  contenente i termini “di uscita” concordato da Johnson, certo qualche cambiamento si vedrà da subito. Finirà ad esempio il regime di libera circolazione con l’Europa, e Londra ha già annunciato una politica dell’immigrazione che privilegerà i lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati.  Di conseguenza tanti giovani italiani che all’arrivo in Gran Bretagna si adattavano a fare i baristi, i camerieri od i parrucchieri, non lo potranno più fare, perché prima di partire avranno bisogno di avere in mano un contratto di lavoro, e inoltre potranno fermarsi per un breve periodo (forse un anno), senza mai maturare il diritto alla residenza.  Diversamente, medici o docenti universitari ad esempio, potranno ottenere visti di lavoro per periodi più lunghi, e acquisire la residenza permanente.   Per tutti gli europei, da fine gennaio, per entrare in Inghilterra sarà necessario il passaporto ed un visto elettronico.Nonostante Johnson lo avesse a suo tempo negato, Londra pagherà alla Ue un conto di 40 miliardi di euro per coprire gli impegni assunti in precedenza.L’Irlanda del Nord sarà soggetta ad un regime diverso rispetto al resto della Gran Bretagna, per evitare il ritorno di un confine rigido con la Repubblica di Irlanda, nel senso che l’Irlanda del Nord rimarrà legata al sistema doganale europeo ed al mercato unico.Ma al di là di questi cambiamenti immediati e visibili, la vera partita comincerà adesso.  E la strada per Johnson sarà tutta in salita.E ciò perché la Brexit, nel senso di abbandono formale della Ue, sarà solo il primo passo di un processo alquanto lungo e complicato. Come prima cosa la Gran Bretagna dovrà negoziare un non facile accordo commerciale con l’Unione Europea, e nel frattempo, fino al 31 dicembre 2020, le sue relazioni con l’Europa rimarranno quelle attuali.  Se le trattative non dessero risultati definitivi entro il 1 luglio 2020, la Gran Bretagna potrebbe chiedere di prorogare questo periodo per uno o due anni; ma dovrà farlo appunto entro il 1° luglio, perché in seguito non sono previste ulteriori possibilità di proroga.Certo Johnson potrebbe anche optare alla fine per un distacco senza accordo sugli scambi commerciali (il cosiddetto No Deal) ma gli effetti potrebbero essere veramente devastanti per la Gran Bretagna.Ma anche ammesso che si riesca nel “miracolo” di trovare un accordo commerciale in una manciata di mesi, non è che la saga sarebbe finita.Punti di incontro con la Ue dovranno essere trovati in moltissime altre materie, quali ad esempio la sicurezza e l’applicazione delle leggi, e soprattutto la non risolta questione nord irlandese. Certo nell’euforia della vittoria il biondo Boris ha affermato che finalmente realizzerà la Brexit “senza se e senza ma”, e che non ha alcuna intenzione di chiedere proroghe alla Ue. Proclami molto accattivanti, senza dubbio, ma che potrebbero scontrarsi alla fine con la dura realtà con la quale dovranno misurarsi i sudditi di Sua Maestà Britannica, fatta di nuovi equilibri industriali, finanziari, sociali ed economici.Come per tutte le forme di populismo, da quello di Trump a quello di certi leader nostrani, ad un certo punto scatta il momento della verità, quello in cui bisogna dire ai cittadini che le promesse, o le menzogne, della propaganda sono arrivate al capo linea. Ma al di là degli aspetti internazionali della Brexit, che abbiamo visto vuol dire sfida con la Ue, Johnson dovrà innanzi tutto tenere coeso il Regno Unito.Perché il “fronte interno” si preannuncia piuttosto turbolento e problematico.Per capire meglio do cosa parliamo, ricordo che la denominazione corretta di quella che noi comunemente chiamiamo Inghilterra, è in realtà Regno Unito, formato da Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles. Cominciamo con la Scozia, che rappresenta senza dubbio l’altra faccia del trionfo del leader conservatore.Le elezioni hanno reso evidente che gli scozzesi hanno detto di nuovo NO a Johnson ed alla Brexit, tanto che lo Scottish National Party, il partito indipendentista, ha conquistato 48 seggi sui 59 in palio, ad un soffio del record storico del 2015, ed in netto recupero rispetto a due anni fa.E questo risultato ha portato la leader scozzese Nicola Sturgeon a dichiarare che “La Scozia desidera un futuro diverso da quello scelto dal resto del Regno Unito”.Il voto del 12 dicembre sembra quindi aver prepotentemente riaperto la mai sopita “questione scozzese”.Al di sopra del “vallo di Adriano” la realtà politica attuale vede una mappa elettorale completamente diversa da quella dell’Inghilterra, e la Sturgeon non fa mistero di voler andare ad un nuovo referendum sull’indipendenza.  E’ vero che quello del 2014 aveva visto i secessionisti soccombere, ma nel 2016 la Scozia ha votato nettamente contro la Brexit, ed ora potrebbe essere sempre più problematico per gli eredi di William Wallace, il Braveheart cinematografico, accettare di essere guidati da un primo ministro dell’élite del sud del Paese, marcatamente inglese.E’ altrettanto chiaro che Boris Johnson non ha alcuna intenzione di concedere il bis del referendum per l’autonomia (nel 2014 concesso invece da David Cameron), che deve essere autorizzato dal Parlamento di Westminster.Ma se alle prossime elezioni locali lo Scottish National Party dovesse ripetere l’exploit delle politiche, allora la pressione indipendentista potrebbe crescere ulteriormente.  Con il rischio di una deriva “catalana”, nel senso che gli scozzesi potrebbero decidere di andare al referendum contro il parere di Londra, andando allo scontro frontale.  Sarebbe una vera e propria “bomba ad orologeria” costituzionale. Ma anche in Irlanda del Nord (Ulster) le elezioni hanno portato cambiamenti importanti. Gli unionisti protestanti sono andati piuttosto male, mentre i nazionalisti cattolici del Sinn Fein hanno  invece colto un buon risultato.  Per la prima volta gli unionisti filo inglesi non sono più maggioranza, e questo farà alzare sicuramente le ambizioni di unirsi alla Repubblica di Irlanda (Eire), che potrebbero essere ulteriormente acuite dalla non risolta questione del regime doganale.Se ci aggiungiamo che anche in Galles sono riscontrabili aspirazioni nazionalistiche, anche se al momento molto minoritarie, si capisce che il quadro d’insieme dovrebbe allarmare Johnson e l’establishment britannico. Sono dinamiche di cui non è facile pronosticare l’evoluzione, ma quel che è certo è che, paradossalmente, per Johnson sarà più difficile contrastare queste aspirazioni indipendentiste una volta che avrà portato la Gran Bretagna fuori dalla Ue.  Con il rischio che ad abbandonare la Ue alla fine siano solo i territori attorno a Londra, vale a dire l’Inghilterra propriamente detta.In conclusione, senza nulla togliere a Boris Johnson, che stravincendo le elezioni ha mostrato le sue qualità di “animale politico”, va rimarcato che il voto non ha risolto tutti i problemi, anzi.   Restano molte incognite, e molti “non detto” che dovranno essere chiariti quanto prima.  E per il biondo Boris non sarà una passeggiata.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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