16 Ottobre 2019 - 9.30

EDITORIALE – Italia, viaggio nella “giungla” delle leggi

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Quando Dio volle dare le sue regole al popolo ebraico, non impose a Mosè un codice corposo, bensì dieci semplici “Comandamenti”, facili da capire e da ricordare.
Certo si trattava di società arcaiche, sicuramente meno articolate delle nostre, ma da qui ad arrivare alla montagna di leggi vigenti nel nostro Paese ce ne corre.
Tutti noi sappiamo che le leggi italiane sono un numero esorbitante, ma quando ci si trova davanti ai numeri esatti, si resta quasi sgomenti.
L’Ufficio Studi della Cgia di Mestre di recente le ha contate, e ha stimato che in Italia ci siano circa 160.000 norme, di cui 71.000 promulgate a livello centrale, e le rimanenti a livello regionale e locale.
Tanto per avere un metro di paragone con Paesi simili all’Italia, in Francia ci sono circa 7.000 norme, in Germania 5.500, in Inghilterra 3.000.
Capite bene che non è una differenza da poco, perché 160mila norme costituiscono una “giungla” nella quale risulta molto difficile orientarsi e districarsi, anche per il più ligio dei cittadini.
Ma gli effetti più devastanti di questa iper-legislazione cadono per di più sulle spalle delle nostre imprese, con costi che finiscono per incidere pesantemente sui costi e sui bilanci.  
Secondo uno studio del Gruppo professionale The European House – Ambrosetti, il sistema produttivo italiano spende circa 57 miliardi l’anno per espletare gli adempimenti, chiedere autorizzazioni e permessi, ed in generale per espletare tutti gli adempimenti richiesti dalla Pubblica Amministrazione.


Ma chi è che produce tutte queste norme?
C’è un solo responsabile per la verità, ed ha un nome ben preciso: burocrazia, comunque vogliate definirla.
Volete qualche dato?
Sempre secondo lo studio della Cgia, nel 2018 le 365 Gazzette Ufficiali pubblicate erano composte da 30.671 pagine.  Non avete letto male: sono proprio trentamilaseicentosettantuno!
Un numero che segna un primato inarrivabile, un numero che ci impone come leader europei per numero di leggi.  Forse sarebbe meglio essere primi in qualche altro settore.
Stampandole tutte si otterrebbe una montagna di carte di circa 80 chilogrammi, e mettendo le pagine una in fila all’altra si raggiungerebbe la distanza di circa 452 chilometri.
A Mestre hanno persino calcolato quanto tempo sarebbe necessario per leggerli tutti questi atti normativi.  Ipotizzando, a mio avviso con una buona dose di ottimismo, un tempo di 5 minuti per ogni legge, regolamento ecc. , qualunque cristiano avrebbe bisogno di circa 319 giorni lavorativi di lavoro ininterrotto.
Rispetto al 2017, l’anno scorso si era notato un piccolo miglioramento, ma il confronto dei numeri del 2019 con quelli dei due anni precedenti, almeno con riferimento agli atti prodotti fino al 10 ottobre, segnala una situazione ancora in peggioramento, con più di mille pagine in più pubblicate nella G.U.


Ma perché in Italia si producono tante norme, con un trend che credo di non esagerare nel definire “patologico?
La risposta sta tutta nel processo normativo, cioè nel modo in cui nascono le leggi.
Contrariamente a quanto suggerirebbe la logica, quando viene decisa ed emanata una norma, nessuno si preoccupa di abrogare formalmente le normative precedenti, con il risultato che, anno dopo anno, le leggi vigenti sono aumentate a dismisura.    Oltre a tutto negli ultimi anni si è imposto il ricorso sempre più frequente ai cosiddetti Decreti Legislativi, un tipo di atto che, per  sua natura, per avere effetto necessità della promulgazione di decreti attuativi.
Fino ad arrivare a situazioni a dire poco imbarazzanti. Così nel  2018 il top della produttività normativa si ebbe il 12 aprile, quando  nel Supplemento ordinario n. 18 della Gazzetta Ufficiale venne pubblicata la prima tranche  degli Indici Sintetici di Affidabilità Fiscale (ISA).  Un inserto, chiamiamolo così, di ben 2.967 pagine.     Con una replica il 4 gennaio di quest’anno, quando il Supplemento n. 3, il secondo decreto riportante gli ISA, contava ben 4.334 pagine.
Uno potrebbe pensare: ma questo è lo Stato centrale! A livello regionale forse le cose sono diverse.
Purtroppo non è così.


Non contando le normative comunali e provinciali, che comunque esistono e sono moltissime, alle leggi nazionali si aggiungono anche quelle della Ragione Veneto, che vengono pubblicate sul Bollettino Ufficiale della Regione Veneto (BUR) 
Nel 2018 sono stati pubblicati 150 fascicoli, ed anche qui si tratta di decine e decine di migliaia di pagine.
Capite bene come nessun “mortale” sia in grado di conoscere tutta questa congerie di norme.
E forse questo è un dei motivi per cui nel nostro Paese (dati al 2015) ci sono 234mila avvocati, quasi quattro per ogni mille abitanti.  Tanto per avere un metro di confronto, in Germania i legali sono 163.690, in Francia  60.223, in Polonia 36.582. A seguire Portogallo (29.240), Romania (23.784), Grecia (21.439), Belgio (18.174), Paesi Passi (17.486), Norvegia (14.081), Bulgaria (12.629), Repubblica Ceca (12.015), Danimarca (5.989), Austria (5.940), Svezia (5.618), Croazia (4.483), Irlanda (2.243), Slovenia (1.611) e Islanda (1.057).  
Va poi considerato che a questa sovrabbondanza di leggi non è che corrisponda una società ordinata e ligia al rispetto delle norme.
Al riguardo uno che se ne intendeva, il grande giurista ed avvocato Francesco Carnelutti, era uso dire: “In Italia ci saranno circa 200mila leggi.  Per fortuna sono temperate da una generale inosservanza”.
Mai battuta fu più azzeccata, i quanto fotografa in poche parole l’ “andazzo” italiano.
C’è poi il non trascurabile problema del come sono scritte le nostre leggi.  Che sono quasi sempre di contenuto “oscuro”, ed espresse in un italiano sovente incomprensibile.
Articolati-monstre, continui rimandi a testi di legge precedenti che rendono la norma inintelligibile, l’inserimento di misure rubricate “bis”, “ter” e “quater”, perché infilate all’ultimo momento senza alcun coordinamento; questa la realtà.  E badate bene che non è poi solo una questione di stile. Il punto è che le nuove leggi, come sopra accennato, non sono neanche in grado di camminare da sole. Solo in un caso su tre sono direttamente applicabili: la percentuale di autoapplicabilità è di circa il 38%, un dato che fa piazza pulita di tutti gli sforzi per ottenere norme efficaci direttamente senza bisogno di decreti o regolamenti. 
Quindi, se all’inflazione normativa si somma appunto il pessimo linguaggio con cui sono scritte le norme, il quadro diventa ancora più schizofrenico.  E la conseguenza è che coloro che sono chiamati ad interpretarle, giudici, burocrati, commercialisti, avvocati, diventano ipso facto dei legislatori in miniatura, nel senso che creano le regole, invece di applicarle.   Del resto è comprensibile e giustificabile, a fronte di leggi che suonano come abracadabra, e che si contraddicono l’una con l’altra, senza mai abrogarsi espressamente. 
Non va sottaciuto che questo scadimento della qualità delle norme è anche diretta conseguenza della sempre maggiore impreparazione di una classe politica improvvisata e sprovveduta.
Sperare che le cose cambino a breve è pura fantasia.


Eppure basterebbero poche cose per voltare pagina, depurando il linguaggio “burocratese”, che sembra fatto apposta per creare problemi a cittadini ed imprese. 
In primis una norma “generale” che imponesse il principio che ogni nuova legge debba espressamente obrogare le norme precedenti non più compatibili, e vietasse la possibilità dei paragrafi “bis”, “ter” ecc.
Poi bisognerebbe imporre una specie di “supervisione linguistica” sulla qualità dei testi prodotti dagli Organi legislativi, per assicurarsi che siano comprensibili, ben formulati, ed armonizzati appieno con l’ordinamento.
Va sottolineato che si tratterebbe di cambiamenti a “costo zero” per lo Stato, ma che si tradurrebbero in enormi benefici per l’intero Paese.
Utopie?    Può essere, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

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