3 Giugno 2019 - 12.40

EDITORIALE – Da oggi i soldi che guadagniamo sono nostri

154 giorni, ovvero il 42,1% dell’anno; tenete a mente questo numero.
Perché si tratta  dei giorni necessari a noi contribuenti italiani per raggiungere il cosiddetto “Tax freedom day”, che tradotto significa “giorno della liberazione fiscale”.
Che rappresenta il momento in cui ciascuno di noi smette di lavorare per lo Stato, ed inizia a guadagnare per se stesso e la sua famiglia.
Il concetto di Tax freedom day è stato sviluppato nel 1948 da Dallas Hostetler, imprenditore della Florida, che intendeva così aiutare i propri dipendenti a comprendere quanto effettivamente fossero tassati.
Trattasi ovviamente di puro esercizio teorico; tuttavia questo tipo di analisi è importante perché fa comprendere appieno, soprattutto quando la si confronta con analoghi dati degli altri Paesi europei, quanto sia opprimente il carico fiscale sugli italiani, soprattutto in rapporto alla qualità dei servizi erogati dallo Stato.  
Ma serve anche per fare chiarezza sulle “chiacchiere” e sui “luoghi comuni” che sull’argomento ci vengono propinati abitualmente dalla politica. 
Con i numeri c’è poco da giocare, anche se “Lor signori” ci provano sempre.
Quindi il Tax Freedom è utile per comprendere davvero le proporzioni numeriche, come è il caso dell’ammontare delle tasse rispetto al proprio stipendio.  Il nostro cervello ha bisogno di visualizzare dei numeri: una cosa, infatti, è sapere genericamente di aver pagato il 40% in tasse, un’altra cosa è ripercorrere gli ultimi sei mesi di lavoro, e constatare che tutto ciò che si è guadagnato è finito sui conti del Fisco.
Tornando ai 154 giorni (sabati e domeniche compresi), essi derivano dal fatto che quest’anno il giorno della liberazione fiscale cade il 4 giugno. 
Se consideriamo che la giornata lavorativa inizia convenzionalmente alle 8, ogni giorno ciascun italiano medio lavora per pagare le tasse e i contributi fiscali sino alle 11:23, vale a dire quasi 3 ore e mezza al giorno. Gli rimangono solo 4 ore e mezza per costruirsi il reddito o la retribuzione netta”.


Quindi nulla da festeggiare, anche perché, purtroppo, si tratta di una delle date più avanzate nel calendario dei Tax Freedom Days (Tfd) europei.
La Cgia di Mestre ci dice che nel 2017, ultimo anno in cui è possibile effettuare una comparazione con i paesi Ue, i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco 4 giorni in più rispetto alla media registrata nei Paesi dell’area euro, e 8 in più in rapporto con la media dei 28 Paesi che compongono l’Unione europea. Fra i grandi Paesi solo i francesi vanno peggio di noi, in quanto per liberarsi dall’obbligo fiscale servono  loro 23 giorni in più rispetto a noi italiani.  
In tutti gli altri Stati la liberazione fiscale  si  realizza con un netto anticipo. In Germania, ad esempio, questo avviene 7 giorni prima che da noi, in Olanda 13, nel Regno Unito 25, e in Spagna 28. Il paese più virtuoso è l’Irlanda; con una pressione fiscale del 23,4 per cento, i contribuenti irlandesi assolvono gli obblighi fiscali in soli 85 giorni lavorativi, cominciando lavorare per se stessi il 27 marzo: 69 giorni prima rispetto al nostro Tax Freedom Day.


Nonostante le promesse di riduzione della pressione fiscale, sbandierate nel corso della campagna elettorale del 2018, la legge finanziaria per quest’anno non ha portato alcun miglioramento.  Anzi, sia pure di un solo giorno, il Tfd è tornato a crescere.
Sempre l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha ricostruito la serie storica dell’onere tributario in Italia, evidenziando un crescendo inarrestabile.
Negli ultimi 40 anni la pressione fiscale nel Belpaese è salita di quasi 11 punti percentuali. Se nel 1980 era al 31,4%, quest’anno dovrebbe  attestarsi almeno al 42,3%. In questo arco temporale, la punta massima è stata raggiunta nel 2012-2013, quando in entrambi gli anni il prelievo ha raggiunto la soglia del 43,6%. Livello raggiunto a seguito dell’inasprimento della tassazione imposto dal governo Monti, che ha reintrodotto la tassa sulla prima casa, ha aumentato i contributi Inps sui lavoratori autonomi, ha aggravato il prelievo fiscale sugli immobili strumentali, ha ritoccato all’insù il bollo auto, etc.


Il miglior risultato per gli italiani, con il Tfd più “precoce” si è verificato con il secondo Governo Berlusconi nel 2005, anno in cui la pressione fiscale si attestò al 39,1%, ed ai contribuenti italiani basto raggiungere il 24 maggio (143 giorni) per scrollarsi di dosso il giogo fiscale.
Io credo che questi dati riportano ad uno dei principali problemi del nostro Paese, quello dell’evasione fiscale, che arreca allo Stato ed ai suoi cittadini non pochi problemi.
Innanzitutto porta ad una riduzione delle entrate pubbliche, e di conseguenza ad un peggioramento dei servizi (sanità, istruzione, trasporti, strade  e così via), del Welfare State, dei meccanismi di redistribuzione del reddito di cui lo Stato si fa carico. 
Di importanza cruciale è il fatto che si aumenta il livello della pressione sui contribuenti che pagano, proprio al fine di compensare la perdita di fondi.
Ciò finisce inevitabilmente per acuire il conflitto fra coloro che pagano fino all’ultimo euro e non possono evadere, e coloro che invece possono sfuggire al pagamento delle imposte.


Da decenni i dati ci dicono che circa al’85% dell’Irpef viene pagato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, sulle cui spalle alle fine finisce per gravare il peso della spesa pubblica.  Per non dire che evasione ed elusione alterano anche la concorrenza, in quanto un imprenditore onesto fa sicuramente più fatica a stare sul mercato rispetto al collega infedele, per il quale le tasse evase si trasformano di fatto in maggiori profitti.
Si tratta del classico “cane che si morde la coda”; più si evade, più lo Stato cerca di sopperire alla mancanza di fondi alzando la pressione fiscale.
Per interrompere questa catena non servono formule magiche: basterebbe intervenire sui fattori scatenanti il fenomeno.
Lo capisce anche un bambino che i condoni rappresentano uno schiaffo a chi paga tutte le tasse; e che senza controlli e pene severe l’evasione non la si batterà mai.


Un cambio di marcia è necessario anche al fine di esorcizzare il sentimento generale di impunità  diffuso fra i cittadini, e mutare la percezione dello Stato come una sanguisuga che prende senza restituire.
Sottovalutare questi aspetti rischia di vanificare qualunque riforma fiscale venga messa in cantiere, flax tax compresa.
In attesa che la politica “batta un colpo”, non ci resta che prendere atto che dal 4 giugno i soldi che portiamo a casa con il nostro lavoro sono nostri, e non della Repubblica Italiana.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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