22 Marzo 2017 - 12.07

EDITORIALE – Bullismo: mini criminali da punire senza pietà

Urtano le coscienze gli episodi di bullismo spesso riportati dalle cronache giornalistiche.
Lo schema è sempre lo stesso.
Un gruppo di ragazzi, di età ogni volta più giovane, che in modo violento, prevaricatore, in qualche caso selvaggio, infierisce contro coetanei, in genere quelli più indifesi, isolati, timidi, di cui magari si fingono amici.
Loro, gli aggressori, si credono invece forti e invincibili.
In realtà hanno questa idea solo perché protetti dalla loro comunità di riferimento, quel branco che loro stessi costituiscono per rafforzarsi e diventare più spregiudicati e per farsene scudo, diluendo nel gruppo le responsabilità personali.
Le bande di quartiere o i gruppi di ragazzi facinorosi non sono un fenomeno nuovo. Esistono da sempre, ma, rispetto al passato, agiscono in un ambito che li rende più pericolosi, per chi ne fa parte e per le loro vittime, in cui hanno un ruolo prioritario i social media e un loro utilizzo privo di limiti e regole, soprattutto morali ed etiche, che costituiscono le basi su cui si formano persone equilibrate e integrate in una società civile.
Sono usati senza filtro dalle star, siano dello spettacolo o dello sport, e dai genitori e il messaggio trasmesso a ragazzi di neanche 15 anni è che esiste un mondo dove per creare e sviluppare il culto di se stessi e della propria immagine tutto è concesso.
Oggi è diffusa un’idea iconoclasta che respinge qualsiasi riferimento istituzionale come falso o peggio manipolatore. Così prende sempre più piede un’ignoranza, che non si limita a non sapere, ma è anche chiusa nell’arroganza di essere nel giusto.
È quella di quei genitori che non vaccinano i figli, di chi contesta la multa del vigile anche se ha compiuto una palese infrazione, di chi pretende di saperne di più di un esperto in una data materia, perché ha guardato qualcosa su internet, magari sbagliando sito e fonte.
È la stessa di quelle madri e di quei padri dei ragazzini arrestati per avere compiuto atti gravi di bullismo a un loro compagno di scuola, che hanno affrontato in modo aggressivo e offensivo le forze dell’ordine mentre prelevavano i loro pargoli.
Sempre più in questa logica assume rilievo una concezione di onnipotenza, per la quale chi è sotto un canone auto determinato è un debole da emarginare, e di onniscienza, nella quale non esiste mai il dubbio, che invece di essere stimolo per una maggiore conoscenza è vissuto come un limite e una mancanza.
In tutto ciò prevale un concetto individualistico, in cui l’io deve prevalere e tutti sono quell’io, quindi ogni persona si concentra solo su se stessa o il proprio nucleo, che sia famigliare o di amicizie, e tutto ciò che ne è fuori è altro, diverso, da escludere, emarginare.
Questa perdita di idea collettiva della società quando entra in una scuola può produrre la prevaricazione del gruppo verso il ragazzo più isolato, visto come differente ed estraneo, solo perché non si accontenta di essere come gli altri o come loro vorrebbero, o forse non ci riesce, proprio perché trattato da escluso.
Così viene preso di mira, picchiato, umiliato, punito perché debole e così reso ulteriormente fragile.
In modo analoghi è successo anche in passato, ma nessuno arrivava ai livelli attuali perché esistevano limiti che oggi i ragazzi predisposti a compiere tali atti, investiti da immagini di ogni tipo, e circondati da esempi deleteri, non conoscono.
In passato, il controllo sociale che deriva da quell’idea collettiva smarrita consentiva di individuarli in poco tempo e non serviva l’intervento delle forze dell’ordine, bastava quello delle madri e dei padri, la cui autorevolezza non era messa in discussione, anche perché nemmeno immaginavano di fornire il minimo alibi al proprio figlio.
Oggi, in molti casi di cronaca recente, c’era chi vedeva e taceva, non tanto per paura o per omertà, ma perché non lo riguardava, penalizzava un altro, non se stessi o il proprio figlio.
Di fronte a tutto ciò c’è oggi chi chiede di inasprire le pene e di allargare il perimetro delle responsabilità, consentendo di arrestare anche i minori di 14 anni e di punire i genitori, come indiretti colpevoli.
Possibile che tutto ciò produca una deterrenza, ma sarebbe minima, perché i ragazzi sapevano di fare una cosa sbagliata e che se individuati sarebbero stati puniti. Però hanno agito lo stesso.
Forse non immaginavano che, superati i 14 anni, potevano essere portati via in manette, come successo, ma in ogni caso tutti erano consapevoli di commettere un reato.
Inasprire le pene può quindi essere un segnale che la società alza la guardia, coinvolgere i genitori può indurli a non sottovalutare certi segnali, sebbene giuridicamente la responsabilità è sempre personale e questo principio non può in alcun modo essere derogato.
Ma tutto ciò non risolverebbe il problema, senza una radicale inversione culturale, in cui la valorizzazione dell’individuo non può e non deve essere un obiettivo fine a se stesso, ma acquisisce senso se proiettato a costruirne uno collettivo, che favorisca una società inclusiva, a partire dai soggetti più deboli.
È un processo difficile, che deve partire dalla consapevolezza per cui ognuno ne è coinvolto e deve praticarlo, nella propria vita quotidiana, come genitore o figlio, come lavoratore o studente, come cittadino che non chiude gli occhi di fronte a un sopruso, ma interviene per impedire, da subito, che un ragazzino venga picchiato e umiliato e che il suo aggressore, da bullo di quartiere diventi un criminale.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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