21 Giugno 2018 - 10.16

ECONOMIA – Fine del quantitative easing, fine della ricreazione

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L’annuncio del governatore della BCE di mandare in pensionamento il Quantitative Easing ( Q.E.) anche se in maniera graduale, preludio di un possibile rialzo dei tassi, segna la fine dei prezzi “drogati”, sapendo bene che non sarà la fine del mondo ma solo il primo passo per ritornare ad un mondo finanziario più normale, anche se non sarà più quel mondo conosciuto ante crack Lehman perché nel frattempo troppe cose sono cambiate a partire dalla regolamentazione attuata da banche e mercati al fine di ridurre rischi sistemici e proteggere gli investimenti dei contribuenti.

Per chi è privo di conoscenza in materia, il Quantitative Easing non è altro che uno strumento non convenzionale di politica monetaria usato dalle Banche Centrali per stimolare la crescita economica, avviato dalla BCE ( Banca Centrale Europea ) nel marzo del 2015, con l’intento anche di orientare l’offerta di credito ed i mercati finanziari. Ora a ripresa economica in corso il governatore Draghi ha deciso di iniziare ad avviare il tapering cioè un rientro graduale degli stimoli.

Lo scopo iniziale della BCE di far ripartire il credito delle banche all’economia reale scongiurando il rischio deflazione è stato di fatto raggiunto, senza non pochi sacrifici, soprattutto immettendo liquidità nel sistema finanziario, creando moneta a debito attraverso iniezioni di liquidità tramite l’acquisto di Titoli di Stato e di altre obbligazioni.

Comunque va ricordato che l’intento principale non era quello di dare sollievo ai conti pubblici, ma bensì attraverso il programma di acquisto dei Titoli di Stato si voleva fornire una spinta all’economia ed una ripresa dell’inflazione.

Se vogliamo usare un paragone, il Q.E. è stata una medicina per dei malati gravi, dove nei panni dei malati c’erano quegli Stati in difficoltà a sostenere ed a rinnovare il proprio debito pubblico. Il tutto nel rispetto di due importanti paletti, quali l’impossibilità da parte della BCE di acquistare più del 25% dei titoli messi in circolo con ogni emissione, ed in secondo luogo l’impossibilità sempre da parte della BCE di acquistare più del 50% del debito pubblico di un singolo paese.

Qualche pensiero il mondo bancario potrà averlo. Le banche hanno ancora troppi titoli del debito pubblico nei loro bilanci. Forse è giunto il momento anche per loro di smobilizzare ed accasare importanti plusvalenze rinunciando a parte dei guadagni derivanti dal flusso cedolare sapendo bene però che potrà essere compensato, in caso di aumento dei tassi, da maggiori margini derivanti dall’attività tradizionale quando la forbice tra raccolta ed impieghi del denaro inevitabilmente si allargherà.

L’Italia invece si gioca una grande partita che non può perdere, pena una nuova esclusione dai campionati del mondo ( verrebbe da dire ). Se non la si vince potrebbe aprirsi una fase di difficoltà. Non va dimenticato che il nostro debito pubblico è arrivato a quota 2315 miliardi, con una crescita mensile pari a 10,5 miliardi al mese nell’ultimo trimestre.

Scommessa da vincere che si traduce nello sfruttare in maniera corretta il tempo che ci separa dalla fine del Q.E. per avviare una seria e costante diminuzione del rapporto tra debito pubblico e PIL.

 

Fabio Rossi

 

 

 

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