18 Aprile 2020 - 18.28

DPCM, questo sconosciuto strumento di potere

L’emergenza sanitaria creata dalla diffusione del Covid-19 ci ha reso familiare un nuovo termine: il DPCM. Si tratta del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, un atto regolamentare che non ha la forza di una legge e che in genere dovrebbe essere emesso su esplicita delega del Parlamento e per dettare norme di dettaglio squisitamente tecniche relative alla norma generale. Quello che è accaduto negli ultimi mesi, invece, ci ha permesso di osservare come lo strumento del DPCM sia stato utilizzato per affrontare con rapidità e decisione una situazione mai vista prima. Eppure questo ci è costato molto, sotto diversi profili, a cominciare dal rispetto della Costituzione. Ogni volta che ci si trova ad affrontare una emergenza, si invocano poteri straordinari, l’eliminazione di impacci burocratici e normativi, la necessità di prendere decisioni rapide e concrete. Questo atteggiamento, però, nasconde almeno un paio di pregiudizi e porta a sconsolanti considerazioni. Si pensa, sbagliando, che la Costituzione non contenga norme specifiche dettate per affrontare le situazioni di emergenza, si considerano i parlamentari eletti come parassiti che occupano non tanto un luogo sacro della democrazia come la Camera dei Deputati o il Senato, ma delle poltrone lautamente retribuite per compiti che non vengono assolti, si intravvede, in tutto questo, il mai risolto spirito italico della ricerca dell’uomo forte, della soluzione di tutti i mali, della scorciatoia salvifica. Partiamo dalla Costituzione. I padri costituenti non hanno trascurato di pensare alle emergenze e, visto il periodo storico nel quale si trovavano, hanno scritto le norme necessario per quello che poteva essere allora lo stato di emergenza per definizione: la guerra. In questo senso l’articolo 78 della Costituzione affida al Parlamento il compito di dichiarare lo stato di guerra e di affidare al Governo i “poteri necessari”. Molte volte e da più parti abbiamo sentito paragonare questa epidemia ad una vera e propria guerra, ma al momento di affrontarla dal punto di vista della legge e della costituzione ce ne siamo dimenticati. La prima reazione allo stato di emergenza arriva con un DPCM che impone comportamenti e limitazioni alle libertà personali di eccezionale portata, un regolamento che arriva anche a stabilire sanzioni penali in caso di inosservanza. Quest’ultimo aspetto è stato subito criticato e non è un caso se le sanzioni penali, nel breve volgere di qualche giorno, sono state cancellate e sostituite da una sanzione amministrativa. Nei primi giorni, infatti, chi fosse stato colto a violare la quarantena veniva denunciato e rischiava un processo in piena regola, mentre poi lo stesso comportamento si traduceva solo nell’applicazione di una salata sanzione amministrativa. I procedimenti penali, aperti nel frattempo, verranno quasi certamente archiviati e trasferiti al Prefetto per l’applicazione delle relative misure. Rimane il problema centrale: un regolamento emesso dal Governo, da un singolo ministro o dal Presidente del Consiglio deve essere sostenuto da una legge del Parlamento o da un atto avente forza di legge. Quel provvedimento è arrivato con il d.l. 6/2020, una sorta di via libera priva di contenuto e per questo solo minimamente meno criticabile dell’assenza assoluta di legge. Torniamo alla Costituzione e vediamo come si era pensato e stabilito di affrontare le emergenze. La risposta è contenuta nell’articolo 77 che spiega come e quando il Governo possa adottare un Decreto Legge. Si legge testualmente che lo strumento in questione viene adottato “in casi straordinari di necessità e urgenza”. A vederla così, la norma sembra essere lo strumento perfetto per affrontare l’emergenza se non fosse almeno per due circostanze. Il nostro sistema parlamentare è ormai affidato a forze politiche che, nella disperata e continua ricerca del consenso, non riescono a legiferare in tempi rapidi e quindi il Parlamento si rivela incapace di affrontare anche la normale attività di un Paese. Questo ha portato vari Governi, negli anni, ad utilizzare lo strumento del decreto legge non tanto per affrontare le emergenze, quanto per scavalcare la lentezza del Parlamento e metterlo poi nella condizione di dover convertire in legge provvedimenti che, nella pratica potrebbero aver già incontrato il favore dei cittadini e la cui decadenza potrebbe mostrare esiti negativi non desiderabili dalle stesse forze politiche, preoccupate ora come sempre della perdita di consenso. Lo strumento destinato alle emergenze viene quindi usato nella normale conduzione degli affari correnti e – allo scoccare dell’emergenza vera – viene percepito a sua volta come troppo complicato e farraginoso per essere davvero efficace. Ne deriva il ricorso, spropositato, al DPCM. Gli obblighi ai quali siamo stati sottoposti negli ultimi due mesi, però, non sono banali. Si è trattato di limitare la libertà personale (art. 13 Cost), di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost), di diritto e dovere al lavoro (art. 4 Cost), di libertà di iniziativa economica privata (art.41 Cost), diritto allo studio (art. 33 e 34 Cost). E tutto questo a fronte della doverosa tutela della salute (art. 32 Cost). Come è universalmente noto, i singoli diritti non sono assoluti, vanno posti in confronto fra loro in una operazione di bilanciamento nel corso della quale alcuni possono dover cedere il passo ad altri, anche se il provvedimento che lo attua deve essere sempre proporzionato. Se parliamo di proporzione, allora, è necessario capire chi deve stabilire se un atto è proporzionato, se dunque la compressione della mia libertà personale è avvenuta sulla base di un bilanciamento che abbia indicato un modo di agire proporzionato e utile ad ottenere lo scopo di salvaguardare la salute pubblica. Se si fosse seguita la Costituzione e i provvedimenti fossero stati adottati in forza di una legge, allora quella legge sarebbe stata valutata dal Parlamento che, per il fatto stesso di essere stato eletto dai cittadini, li rappresenta in maniera proporzionale al voto. Quella stessa legge sarebbe quindi stata promulgata con la firma del Presidente della Repubblica che avrebbe potuto valutarla alla luce della Costituzione, rinviarla alle Camere per una riformulazione, magari aggiungendo una raccomandazione. Se avessimo avuto una legge, o un decreto legge convertito, allora quell’atto poteva essere esaminato dalla Corte Costituzionale ed eventualmente cancellato, corretto o confermato. Dal momento che non si tratta di una legge, ma di un regolamento, allora l’unica autorità che potrebbe revocarlo è quella amministrativa, la catena costituita da Tar e Consiglio di Stato. Non dimenticandosi dello stretto legame che da sempre avvince Governo e Consiglio di stati, quindi controllati e controllori. Non so voi, ma io preferisco la prima strada rispetto alla seconda. Preferirei sentirmi un po’ più tutelato quando in gioco ci sono i miei diritti costituzionali. Sinceramente, affidare tutte le decisioni ad un Governo, anzi spesso al solo Presidente del Consiglio dei Ministri, accettare che di punto in bianco i miei diritti vengano stravolti mi ricorda sinistri avvenimenti del secolo scorso, svolte autoritarie che non possono essere giustificate solo dall’emergenza. Oggi la paura del virus e della sua diffusione giustifica tutto, paralizza ogni discussione, mette automaticamente fuori gioco ogni voce che non si allinei al coro. Chi eventualmente predichi prudenza, anche nell’adottare misure emergenziali, viene visto come il solito disfattista, anti-italiano, criticone di professione. Verrà il momento nel quale si faranno i conti, gli errori dovranno essere valutati, i passi falsi imputati a qualcuno. Gli errori, fatti seguendo la Costituzione democratica di questo paese, sono convinto, sarebbero sicuramente meno gravi di quelli che sono stati forse compiuti ignorandola completamente.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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UNICHIMICA

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