18 Aprile 2017 - 8.50

DELITTO DI CAMISANO E FEMMINICIDIO: CHI AIUTA GLI UOMINI?

Donne uccise dai mariti, dai compagni, da coloro che un tempo dissero di amarle e che non riescono ad evitare di odiarle. Troppi casi per non chiedere a gran voce aiuto per gli uomini

Il dato cambia con tale velocità da rendere difficile anche tenere il conto. Nel 2016 ci sono stati 120 casi di femminicidio. Una rilevazione compiuta lo scorso 2 marzo parlava di 13 vittime dall’inizio dell’anno ma in seguito ci sono stati casi di Vercelli, Fiorilena Ronco, 41 anni, speronata, inseguita e uccisa dal marito Maurizio Zangari, accecato dalla paura di perdere i propri figli; quello di Catania con Patrizia Formica accoltellata nel sonno dal raptus di Salvatore Pirronello che agisce perché “volevo lasciarla, ma lei minacciava di suicidarsi”; quello di Chieti dove Francesco Marfisi non si accontenta di accoltellare la moglie Letizia Primiterra ma anche la sua amica Laura Pezzella.
Nella notte fra mercoledì e giovedì scorsi a Camisano, l’ultimo episodio vicentino: Mirko Righetto accoltella la moglie Lucia Loza Rodriguez. Anche in questo caso la molla scatenante sembra essere la gestione della figlia, che l’assassino protegge e consegna alla madre perché non veda quello che babbo ha fatto alla mamma.
Il fatto accade a circa un anno da una vicenda in gran parte simile, quella che aveva portato alla morte di Monica De Rossi per mando Davide Tomasi a Pojana di Granfion. In pieno agosto, peraltro, Sergio Bonisolo affonda un coltello da combattimento nella pancia della moglie e poi chiama i soccorsi. La scusa, “ha tentato il suicidio”, regge solo per una manciata di minuti.
Il ripetersi ossessivo di episodi che hanno sempre la stessa origine, la stessa progressione malata e spesso la stessa conclusione tragica deve portare a riflettere. Molto e con grande merito si è fatto e si è tentato di fare in questi anni per far crescere la consapevolezza del mondo femminile e la capacità delle donne di riconoscere i segnali degli atti persecutori – prima – e della violenza vera – poi- . Sono nati centri di ascolto e di aiuto, associazioni femminili e programmi che aiutano le donne a lasciare il tetto coniugale quando la situazione si fa insostenibile. Si tratta di una serie di azioni che sono estremamente importanti e che devono andare di pari passo con una generale attivazione della società verso i temi della protezione femminile. Nelle Procure sono nati addirittura dei gruppi di lavoro intitolati “fasce deboli” per dare una attenzione particolare a donne e minori. Tutto bello, tutto importante. Funziona? A giudicare dai numeri, non pare proprio. La violenza non conosce freno e l’aggressività maschile si trasforma ancora in sopraffazione e dolore e morte.
Forse allora è il momento di cominciare e chiedersi se non sia il caso di occuparsi degli uomini: del modo in cui vengono educati, cresciuti, trattati nella nostra società, andando ad indagare i meccanismi che scatenano la violenza. Lavoro per sociologi, psicologi, psichiatri, magistrati ma anche per ciascuno di noi.
A giudicare dalle cronache il “maschio abusante” non conosce limiti di educazione, strato sociale di appartenenza, storia personale. Accade un po’ a ciascuno. Perché?
Le molle più banali sono in genere tre: la gelosia, la perdita – vera o presunta, anche solo minacciata – dei figli, il rischio di vedersi portar via la casa, la roba, una certa posizione economica e sociale.
il meccanismo secondo il quale nella coppia che si separa, il bene che viene tutelato è il benessere dei figli, ad esempio, porta il magistrato ad assegnare, quasi in automatico, la custodia dei figli alla madre. Anche se è lei a voler porre fine al rapporto, anche se è lei magari ad aver trovato un nuovo compagno. In questo modo l’uomo si vede sottrarre la prole, senza capirne il motivo, vede la casa familiare ospitare moglie e figli e lui si deve trovare una nuova casa, deve affrontare spese e mantenimento, si ritrova povero nel rapido volgere di un battito di ciglia.
Non dico che questo giustifichi la violenza, perché non dirò mai che la violenza sia giustificata. Mi chiedo quanti abbiano riflettuto su queste circostanze. Lo stalker che viene allontanato da casa, provvedimento giusto e giustificato, si trova improvvisamente fuori dalla sua abitazione ma non trova nessuno che gli spieghi cosa è successo, cosa deve fare adesso. Non ci sono comunità, non ci sono associazioni di mutuo-soccorso. Solo un generale disprezzo che non tutti riescono a capire e ad accettare.
Forse è arrivato il momento di fare qualcosa anche per gli uomini, forse è questo il lato oscuro che nessuno sembra vedere e forse è da qui che bisogna partire, se ogni altra strada sembra non dare i risultati sperati. Se molto è stato fatto per le donne, potrebbe essere arrivato il momento di fare qualcosa anche per gli uomini che non si sono adattati al cambiamento sociale, che di fronte a separazione e divorzio, per cultura e preparazione sono rimasti ancorati a concezioni ottocentesche. I maschi non vengono allevati nella consapevolezza del ruolo di cura domestica che dovrebbero avere, non sono preparati dalla famiglia e dalla società a farsi carico dei figli anche a scapito della carriera e del lavoro. E quando le loro certezze cadono a pezzi non trovano altro schema mentale se non quello che porta alla violenza. Non tutti, non sempre. Ma spesso, sempre più spesso.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
AGSM AIM
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