10 Aprile 2020 - 15.29

Dalla peste del 1349 alla Pasqua social 2020 del Covid-19

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di Stefano Diceopoli

L’ultima volta fu nel 1349, quando anche la Terrasanta fu investita dal flagello della “peste nera”, che in Europa secondo gli storici provocò almeno 20 milioni di morti.  Di fronte all’epidemia, quell’anno il grande portone di legno attraverso il quale si accede al Santo Sepolcro venne chiuso sine die.Quasi sette secoli dopo il luogo più sacro della cristianità, il sepolcro di Gesù a Gerusalemme,  da qualche giorno è stato interdetto al pubblico su disposizione del ministro israeliano della Salute, il rabbino Yaakov Litzman.Si è deciso di chiudere fino a data da destinarsi, il che vuol dire fin quando la pandemia da coronavirus sarà superata.

Questa scelta, che ovviamente non è stata ben accolta dai capi religiosi cattolici, armeni ed ortodossi, impossibilitati a celebrare i riti della Pasqua, tipo la via crucis sulla via dolorosa e la passione, la dice lunga sullo sconquasso provocato dal virus di Wuhan. Che il Covid19 abbia decisamente stravolto le nostre abitudini di vita, chiudendo finora in casa oltre la metà dei cittadini del mondo, lo stiamo vivendo sulla nostra pelle giorno dopo giorno.Ma in questi giorni stiamo prendendo coscienza che questa sarà una Pasqua diversa, del tutto inedita visto che mai nella storia della Chiesa i riti legati alla Resurrezione si erano svolti in chiese deserte. Sarà una Pasqua a porte chiuse, senza riti religiosi collettivi.I prodromi li abbiamo già visti il 27 marzo scorso, quando in una Piazza San Pietro deserta, quasi spettrale, in un silenzio assordante, rotto solo dal battere della pioggia e dal verso dei gabbiani, la voce di Papa Francesco si è levata nel vento per invocare la fine della pandemia.   Un’immagine che resterà per sempre nella storia, e che probabilmente diventerà un’icona simbolica della pandemia del 2020, alla pari della foto dell’infermiera sfinita, addormentata con la testa sulla tastiera del Pc, con mascherina e camice ancora addosso.Ma tutto si è ripetuto in occasione della Domenica delle Palme, che rievoca l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, e che dà inizio alla Settimana Santa. Domenica scorsa non c’è stata la spettacolare processione dall’obelisco di Piazza san Pietro fino al sagrato della Basilica.

Ancora in uno scenario inconsueto rispetto alla gioiosa atmosfera degli anni passati, il Papa ha celebrato i riti in una basilica senza fedeli, assistito da pochi collaboratori liturgici, con un semplice addobbo di palme e di ulivi a scandire lo spazio fra l’altare della Confessione (dove avviene il rito della commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme) e l’altare della Cattedra dove si svolge la messa. Ma ciò è avvenuto anche in tutte le 25mila parrocchie italiane, in nessuna delle quali domenica scorsa si sono tenute le tradizionali processioni.  Nessun rito comunitario ci sarà anche in occasione della Pasqua in Italia e nei Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia. Ma è tutta la liturgia della Settimana Santa a uscirne sconvolta.  Il Papa ha deciso di non celebrare la mattina del Giovedì Santo la messa crismale nella quale si consacrano gli oli necessari per alcuni sacramenti e si rinnovano le promesse sacerdotali, e di rimandarla a quando sarà finita la pandemia.  E non ci sarà neppure la messa del Giovedì Santo in un carcere, come pure il rito della lavanda dei piedi.

Il Venerdì Santo non sarà solo Papa Bergoglio ad essere fisicamente assente al tradizionale appuntamento del Colosseo; per la prima volta nei tempi moderni non ci sarà la folla dei fedeli, in quello storico scenario che fa da sfondo al suggestivo rito della via crucis nella città simbolo della cristianità. La via crucis verrà comunque celebrata dal Papa sul sagrato della basilica vaticana,  e sarà  trasmessa in diretta televisiva in mondovisione, ed in fondo è questa la vera novità della liturgia ai tempi del coronavirus.

La Settimana Santa quest’anno sarà giocoforza vissuta interamente nel mondo dei social.

Lo ha sottolineato anche il Papa nel corso dell’ ”Angelus” che ha concluso la messa della domenica delle palme, con queste parole: “Incamminiamoci con fede nella Settimana Santa, nella quale Gesù soffre, muore e risorge. Le persone e le famiglie che non potranno partecipare alle celebrazioni liturgiche sono invitate a raccogliersi in preghiera a casa, aiutate anche dai mezzi tecnologici. Stringiamoci spiritualmente ai malati, ai loro familiari e a quanti li curano con tanta abnegazione; preghiamo per i defunti, nella luce della fede pasquale. Ciascuno è presente al nostro cuore, al nostro ricordo, alla nostra preghiera”. Va sottolineato a mio avviso il grande senso di responsabilità mostrato in questa occasione dalle gerarchie ecclesiastiche.

A fronte della richiesta di aprire le chiese per Pasqua, lanciata qualche giorno fa dal leader della Lega Matteo Salvini, il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Gualtiero Bassetti ha espresso per tutta la Chiesa il suo parere contrario, richiamando il “rispetto delle regole” ed “il senso di responsabilità”. Non è sempre stato così.

La storia ci ricorda che durante la peste del 1600 i magistrati milanesi chiesero al cardinale Federico Borromeo (quello dei Promessi Sposi) di guidare una processione con le reliquie di San Carlo Borromeo, per invocare la cessazione dell’epidemia.   Inizialmente il cardinale rifiutò, ma poi di fronte alle pressioni anche popolari, acconsenti alla processione ed alla esposizione per otto giorni delle reliquie del santo in Duomo.  L’11 giugno 1630, dall’alba a mezzogiorno, si svolse la solenne processione, a cui partecipò un numero incredibile di persone, e attraversò tutti i quartieri della città. Il giorno successivo si manifestò un improvviso incremento della mortalità; che la pubblica opinione attribuì non ai tanti contatti fra  i cittadini, bensì alle “polverine” sparse dagli “untori”.

Erano altri tempi. Oggi al pericolo epidemico si reagisce in forma più adeguata che nel passato, soprattutto, come in questo caso, quando ci si trova di fronte ad un agente patogeno nuovo, di cui si conosce solo la letalità. Indubbiamente i progressi scientifici e la capacità dei  mezzi di informazione di raggiungere chiunque in qualunque parte del mondo, hanno cambiato le modalità di reazione ad una pandemia. Un tempo di fronte ai flagelli si cercava di “addomesticare” la morte, percepita come presenza inevitabile nella vita dell’uomo, e parte della vita stessa.  La fede, e le gerarchie ecclesiastiche, insegnavano a decontestualizzare il pericolo, confidando nella misericordia divina e nella speranza della vita eterna. Oggi, in questo mondo sempre più attraversato da una sorta di “eclissi del sacro”, nel quale si cerca di convincersi quasi istericamente di “avere diritto alla vita” ed alla felicità, e nel quale si vorrebbe restare “eternamente giovani” in quanto l’aldilà non è più percepito come un passaggio da una dimensione ad un’altra, ed il paradiso sembra un concetto ormai desueto, si reagisce  cercando di dissimulare la morte.

E la conseguenza è che una volta durante le epidemie si organizzavano novene e processioni per invocare la protezione divina; oggi si chiudono le chiese. La scienza ci offrirà sicuramente una via di uscita alla pandemia da Covid19, sia essa una cura od un vaccino. Ma alla fine dovremo riflettere sul fatto che a sconfiggere il coronavirus non sarà stato solo un farmaco, ma soprattutto l’altruismo e l’abnegazione di medici ed infermieri, il sacrificio di chi assiste i malati, di coloro che hanno assicurato le filiere produttive e la logistica.  Uomini e donne che hanno deciso si servire il prossimo anche a costo della vita. Uomini e donne che papa Bergoglio nell’omelia della messa della Domenica delle Palme ha così definito: “Guardate i veri eroi, che in questi giorni vengono alla luce: non quelli che hanno fama, soldi e successo, ma quelli che danno se stessi per servire gli altri”. In tempi di contagio non è tanto importante stringersi “ritualmente” la mano nel “segno di pace” in chiese piene solo a Natale o Pasqua, bensì riconoscersi negli altri, offrendo loro il soccorso e la solidarietà di cui hanno bisogno, perché alla fine il vero grande peccato al mondo è l’indifferenza. Mi sembra che questo sia in estrema sintesi il messaggio che ci dovrebbe trasmettere questa Pasqua inedita, quasi irreale. L’emergenza coronavirus scompagina i riti della Settimana Santa, ma non cancella la ricorrenza, e neppure la consuetudine degli auguri. Quindi, anche se questa rimarrà nella nostra memoria come la Pasqua al tempo del coronavirus, Twiweb augura a tutti voi, ed ai vostri cari, “Buona Pasqua”.

PS: Lo so che il sole è bello, che il cielo è azzurro, che la temperatura è gradevole.  Ma mi raccomando, “Restiamo a casa”!!!  Non vanifichiamo i sacrifici che abbiamo fatto fino ad oggi.

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