27 Ottobre 2020 - 9.31

Dal Boccaccio una lezione sul Covid

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di Stefano Diceopoli

Quando si vuole affermare l’eterno ripetersi degli eventi nella storia, si usa una frase contenuta nella Bibbia, e precisamente nell’Ecclesiaste: Ciò che è stato e ciò che si è fatto si rifarà, non c’è niente di nuovo sotto il sole”.
Pensare che la storia sia un continuo ripetersi di accadimenti analoghi, come sostenuto da Giambattista Vico, è forse eccessivo, ma che, anche a distanza di secoli, si ripresentino situazioni in cui possano riconoscersi delle affinità è possibile.
In questi giorni in cui la pandemia da Covid-19 sta nuovamente imperversando in Europa e nel nostro Paese, mi è ricapitato di sfogliare il Decameron di Giovanni Boccaccio, scritto a pochissima distanza dall’epidemia di peste che devastò l’Europa nel 1300.
Il libro che narra di un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, che per dieci giorni si trattengono fuori Firenze per sfuggire alla peste nera che in quel periodo imperversava nella città, e che a turno si raccontano delle novelle, è noto ai più per il taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all’erotismo bucolico. Tanto che il termine “boccaccesco” è diventato nel tempo sinonimo di “licenziosità molto spinta”.
Ma al di là del contenuto delle novelle, alcune delle quali riaffiorano sicuramente dai vostri ricordi di scuola, tipo “Chichibio e la grù” o “Calandrino, Bruno, Buffalmacco e l’elitropia”, quel che mi interessa è la cornice narrativa in cui è inserita l’allegra brigata dei dieci ragazzi, quella appunto della prima grande pestilenza che, arrivata in Europa dall’ Asia centrale (guarda caso!) in soli 5 anni fra il 1347 ed il 1352 si portò via, secondo le stime, almeno 20milioni di persone, un terzo circa della popolazione del vecchio continente.
Ma come accennavo parlando di cornice narrativa, quel che è interessante è che Boccaccio racconta con precisione, da testimone oculare, le condizioni in cui si venne a trovare Firenze in conseguenza del morbo.
Che apparve subito anche ai fiorentini del ‘300 una malattia contro la quale non c’erano cure, e che determinò la chiusura della città, oltre che la fine di un ciclo economico.
Benchè la scienza medica di quel tempo avesse connotazioni simili alla magia, e non ci fossero strumenti diagnostici, ben presto ci si rese conto che le dogane non fermano virus e batteri, e di conseguenza si cominciarono ad adottare misure anti contagio che sono le stesse che vengono raccomandate in questi mesi: maschere tipo quelle a becco dei medici di allora, guanti, ed isolamento dei contagiati.
Certo la situazione attuale è assolutamente incomparabile a quella del ‘300, e anche dei secoli successivi. Innanzitutto adesso sappiamo chi è il “nemico”, e poi abbiamo strumenti sofisticati per arrivare alla diagnosi della malattia.
Ma come allora anche oggi non abbiamo una terapia risolutiva per battere l’infezione, ed in attesa che la farmacopea ci fornisca un rimedio od un vaccino, le misure consigliate sono esattamente quelle adottate dai contemporanei di Boccaccio.
Oggi nessun medico impegnato nella lotta al Covid si sognerebbe di proporre ai pazienti i “rimedi” che invece venivano indicati dai sanitari trecenteschi.
Ma quali erano questi rimedi?
Marsilio Ficino, noto umanista rinascimentale, scrive a proposito: “Afumiga la casa spesso con buoni odori. Similmente le veste. Tieni al naso et in bocca (dove più mporta) della tiriaca, l’altre volte scorza di cedro o zettovaria, o incenso […]. Spesso ti lava la bocca, el viso et mani con aceto, et qualche volta con vino potente. Fuggi adunque e pesci quanto puoi (intra i quali nuociono meno i piccoli di fiume chiaro, petroso et corrente, fricti in olio con salina, di poi messi in aceto con sale et un poco di pepe o cennamo). Ancora schifa el lacte et ricotte, et se l’usi sia pel primo cibo, et poco et con zucchero. Fuggi le fructe, excepto le mandorle, amarene. Puoi usare più sicuramente le fructe et erbe secche et agre, ovvero alquanto amarette”.
Specifico che la zettovaria è la curcuma, mentre il temine tiriaca indicava un preparato farmaceutico dalle supposte virtù miracolose. La ricetta è variata nel corso dei secoli, ma tanto per capire di cosa parliamo le tiriache del XVI, XVII e XVIII secolo erano fondamentalmente composte da: carne essiccata di vipera (elemento primario), valeriana, oppio, pepe, zafferano, mirra, malvasia, polvere di mummia e anche angelica, centaurea minore, genziana, incenso, timo, tarassaco, matricaria, succo d’acacia, potentilla, miele attico, liquirizia, finocchio, anice, cannella, cardamomo, aristolochia, opoponax, scilla, agarico bianco, vino di Spagna.
Un bel mix, non vi pare? Roba da provare per vedere l’ effetto che fa”!
Un medico fiorentino dell’epoca, tale Tommaso del Garbo, consigliava per proteggersi dal contagio pane intinto nel vino, e le famose panacee quali la triaca e il mitriato, oltre ai chiodi di garofano, il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un’azione disinfettante. Una volta lasciata la stanza di un malato il visitatore doveva lavarsi le mani e la bocca con aceto e vino. Erano considerati altresì efficaci cibi dolci, conservati in acqua fresca, mescolati a sostanze stimolanti come melissa, fiori di buglossa e zucchero di “ottima qualità”. Si dovevano evitare foschie e nebbie, ed il vento del sud.
Qualche altro “terapeuta” raccomandava di «esporsi al mattino presto al fumo di un fuoco bene odorante, ottenuto per esempio bruciando legna di quercia, frassino, olivo o mirto. L’aggiunta di balsamo, incenso o legno di sandalo alla fiamma ne rafforza l’azione disinfettante”. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con sostanze dai profumi molto forti. La carne di montone castrato, vitello, capra, pernice, fagiano e pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce pericoloso.
Come bevande erano preferibili il vino e la birra, mentre andava invece evitata la frutta dolce, come ad esempio le pere.
In particolare venivano considerati ottimali i cibi acidi, perchè contrastavano la “putrefazione”.
Sempre fra le pratiche consigliate c’ era quella di “tenere in bocca bacche di alloro e di ginepro, o ancor meglio cortecce di larici, pini e abeti».
Nella farmacopea erano presenti anche le pietre preziose, quali lo smeraldo tenuto in bocca in piccoli granuli, oppure appeso al collo come un anello che non tocchi la pelle. Sempre da tenere in bocca il giacinto, lo zaffiro, il rubino, le perle e i coralli, e il diamante legato al braccio sinistro sopra la pelle.
Non c’è da stupirsi se, con questi medicamenti, la popolazione europea venne decimata. Tanto per fare due esempi, la pesta nera a Venezia si portò via metà degli abitanti, a Padova circa un terzo.
C’è da considerare che l’impossibilità di apporsi alla peste, che è innescata da un batterio, e non da un virus come il Covid-19, si protrasse per almeno altri cinque secoli, fino alla scoperta degli antibiotici nei primi decenni del 1900.
E la riprova la troviamo infatti nella narrazione che nei Promessi Sposi fa Alessandro Manzoni della peste che, fra il 1628 ed il 1630, colpì diverse zone dell’Italia settentrionale.
Narrazione che presenta qualche similitudine con l’epidemia attuale.
Anche allora ci fu la caccia al “paziente zero” che portò il morbo a Milano. I cronisti dell’epoca credettero di individuarlo nel soldato Antonio Lovato che entrò nel capoluogo lombardo con un fagotto di vesti comprate dai lanzichenecchi. Il Tribunale di Sanità milanese mise in isolamento in casa la famiglia del soldato, e fece bruciare vestiti e suppellettili, ma questo non impedì il dilagare del morbo.
E ritroviamo anche il concetto dell’attuale “zona rossa”, vista la richiesta alle autorità milanesi di chiudere le porte della città, adottando un cordone sanitario atto ad impedire l’ingresso alle popolazioni residenti in zone in cui la peste stava infuriando.
Ma Manzoni riferisce anche di come ci sia stata una sottovalutazione irresponsabile del contagio sia da parte delle Autorità che della popolazione, che, dopo aver partecipato a processioni molto partecipate, alla fine si convinse che a diffondere il morbo fossero individui definiti “untori”.
E nemmeno il ruolo di “super commissario” alla Domenico Arcuri è una nostra idea originale. Nella Milano della peste venne infatti individuato Felice Casati, un frate cappuccino cui venne affidato l’incarico di sovraintendere al lazzaretto, attribuendogli a tale scopo pieni poteri economici, organizzativi e giudiziari. Un super commissario, Casati appunto, che però lavorava anche sul campo (..minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime..). Allora i monaci, oggi medici e infermieri che fanno turni ospedalieri impossibili, fino a crollare di stanchezza su una tastiera.
Credo che, quanto ad analogie, fra le epidemie del 1300 e del 1600 e questa del 2020, ci si possa fermare qui.
Soprattutto perchè l’emergenza Covid-19 non è assolutamente paragonabile in fatto di gravità alle citate pestilenze.
E la differenza sostanziale sta, fortunatamente, nel tasso di mortalità.
Certo quando si parla di donne e uomini che perdono la vita per un virus, qualsiasi numero, anche il più piccolo, ci sembra giustamente inaccettabile. Ma non possiamo dimenticare che la peste nera nel 1300 portò via un terzo degli europei; ai numeri attuali circa 250milioni di persone.
Altra differenza sostanziale è che oggi le conoscenze mediche sanno fornirci valide indicazioni su come contenere il rischio di infettarci, e soprattutto prospettive di avere prima o poi uno strumento efficace, e speriamo definitivo, quale uno specifico vaccino.
Nel frattempo non ci resta che attenerci scrupolosamente alle tre regole adottate anche dai nostri antenati del 1300: mascherine, igiene delle mani, distanziamento.
“Nulla di nuovo sotto il sole”. In fondo queste parole dell’Ecclesiaste hanno ancora una loro valenza.
Stefano Diceopoli

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