13 Marzo 2020 - 11.39

CORONAVIRUS – O la borsa o la vita!

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di Stefano Diceopoli

O la borsa o la vita! Quante volte abbiamo sentito pronunciare al cinema questa intimazione da parte di banditi e fuorilegge. E normalmente la vittima, di fronte a questo dilemma, finiva per consegnare al malvivente tutti i suoi averi.
E’ chiaro che quando c’è in ballo la “pelle” tutto il resto passa in secondo piano, e quindi i soldi, gli averi, nella scala dei valori diventano meno importanti.
Se questo è un discrimine pressochè insuperabile a livello di individuo, lo è un po’ meno a livello di Stati, perchè in una società avanzata come la nostra i soldi servono per fare funzionare la macchina pubblica, e quindi a finanziare i “servizi”, fra i quali anche il sistema sanitario.
Ecco perchè il Governo, di fronte alla pandemia da coronavirus, concentra sì le sua attenzioni in primis sugli ospedali e sulla sanità in genere, ma non può sottovalutare le conseguenze che inevitabilmente la stesse genera sull’economia, e deve prendere le opportune misure di sostegno ad imprese e lavoratori.
Uno degli effetti più clamorosi, e più visibili, della crisi sanitaria lo vediamo ogni giorno leggendo gli indici delle Borse di tutto il mondo.
E dire che si tratta di una “Caporetto” è dire poco.
Sono certo che molti di voi in questi giorni di terribili “crolli” dei mercati si sono posti questa semplice domanda: perchè non chiudono la Borsa?
A prima vista sembrerebbe la soluzione più semplice per rispondere a quella che gli operatori chiamano “volatilità”. Termine quest’ultimo che suona quasi gentile, che però, quando la tendenza è al ribasso, significa miliardi e miliardi di perdita di valore delle azioni.
Quindi verrebbe facile pensare: stacco la presa, chiudo le grida, ed il gioco è fatto; finiti i crolli delle quotazioni.
In realtà le cose sono meno semplici, e cercherò di fornirvi qualche indicazione sul perchè.
Non parleremo volutamente delle “improvvide uscite” della Presidente della Bce Christine Lagarde nel corso della conferenza stampa in cui ha illustrato le prime misure a sostegno dell’economia europea. Non è stato un bell’incipit, e c’è da sperare che l’ex Direttore del Fmi impari presto.
Comunque avremo modo nell’immediato futuro di rimpiangere Mario Draghi!
Vi dico subito che quando si parla di finanza è d’uso utilizzare tutta una serie di termini tecnici in lingua inglese, da “panic selling” a “naked short sales” solo per citarne un paio, con evidenti difficoltà di comprensione da parte di chi non è del mestiere.
Cercherò quindi, e spero di riuscirci, di fornirvi le spiegazioni nel modo più semplice possibile, e soprattutto in lingua italiana.
Ma veniamo alle borse, e sul perchè chiuderle non è una buona idea, ed anzi rischia di aggravare la situazione, provocando altri danni alla stabilità economica già traballante.
Al riguardo credo dica tutto il fatto che i cinesi, a parte il prolungamento della pausa per il Capodanno lunare, non hanno chiuso la borsa di Shangai neppure nei momenti più tragici dell’epidemia. Ed alla riapertura per “fine festività”, per così dire, hanno lasciato sul tappeto anche quello che non avevano perso nei giorni di fermo.
Diverso il caso della borsa di New York nel 2001, dopo l’attacco alla “Torri gemelle”, che venne chiusa, ma solo per pochissimi giorni, perchè era logisticamente impensabile aprirla, visto che i locali erano fisicamente sotto le macerie delle World Trade Center.
Il primo vero motivo che rende difficile chiudere le borse al giorno d’oggi risiede nel fatto che dal 1994 le contrattazioni sono automatizzate, e di conseguenza l’unico virus che si può tramettere per via telematica è la paura.
E non è quindi un caso se il Governo Conte, e soprattutto la Consob, non abbiano preso in considerazione le richieste di chiusura provenienti da alcuni politici, perchè, come ha dichiarato la Consob: La sospensione di tutte le contrattazioni di borsa spegnerebbe l’indicatore del prezzo senza rimuovere le cause, generando problemi di mercato di non facile soluzione nell’immediato futuro”. Che, tradotto in parole povere, equivale a dire che chiudere Piazza Affari sarebbe come se un medico buttasse via il termometro quando il paziente ha la febbre; la malattia resta, ma per il medico diventa più difficile, se non impossibile, capire come evolve il morbo.
Ma non sarebbe l’unico effetto. Un eventuale stop alla contrattazione dei titoli azionari, farebbe aumentare la pressione su altri strumenti finanziari collegati.
Immaginate se voi aveste in portafoglio azioni quotate a Milano e Btp. Se vi bloccassero la vendita delle azioni, e aveste bisogno di soldi, non avreste altra strada che quella di vendere i titoli di Stato, contribuendo in tal modo a fare lievitare il famigerato spread, rendendo più onerosa per lo Stato l’emissione di nuovi Btp. Per non dire che i Btp sono negoziati ovunque, e non solo in Italia, per cui il divieto sarebbe assai difficile da applicare.
Viene poi un altro problema da fare tremare i polsi, e cioè che dopo un’eventuale chiusura, le borse bisogna poi riaprirle.
E qui viene la domanda: per quanto tempo sospendere le contrattazioni?
Una volta chiusa la borsa “causa coronavirus”, siamo certi che il 3 aprile, giorno in cui dovrebbero riaprire le scuole, mai dubitativo fu più azzeccato, i mercati sarebbero meno “volatili”? Oppure, nel caso che l’epidemia perdurasse, la Consob sarebbe costretta a numerose proroghe, in quanto la situazione sanitaria non suggerirebbe la riapertura?
E’ chiaro che se agli investitori si impedisce per periodi lunghi l’approvvigionamento di liquidità, la pressione al ribasso dei corsi sarebbe ancora più forte alla riapertura del mercato.
Per non dire che una prolungata chiusura avrebbe effetti anche di lungo periodo, in quanto i mercati hanno una memoria da elefante, e alla riapertura ci sarebbe meno fiducia nel nostro Paese, con conseguente ondata di vendite per ridurre il “peso dell’Italia” nei portafogli.
Per tutti questi motivi la Consob, presieduta dal “sovranista” Paolo Savona, a mio avviso ha fatto bene a non chiudere Piazza Affari, rimarcando in una nota: “come non ci sia evidenza che gli andamenti della Borsa italiana siano riflesso di attacchi speculativi, salvo che non si voglia attribuire a questo termine la reazione degli operatori alle incertezze sul futuro generate dagli effetti del coronavirus sull’economia. Questi effetti non sono correggibili con decisioni restrittive di Borsa, soprattutto se queste avvenissero in modo indipendente dai paesi membri dell’Unione Europea che sono investiti dagli stessi problemi che colpiscono l’Italia”.
E qui arriviamo ad un altro snodo della questione.
Un’eventuale chiusura, oltre ad avere un impatto negativo sulla liquidità, finirebbe per aumentare la volatilità, ed in definitiva gli effetti della “paura” verrebbero amplificati dalla riduzione del numero degli scambi, visto che non si può vietare che questi avvengano su altre piazze, soprattutto non europee, dove pure sono negoziabili le azioni di società italiane che abbiano deciso di quotarsi su più listini.
Diverso è l’intervento deciso dalla Consob la mattina del 12 marzo di bloccare le cosiddette “vendite alla scoperto”, cioè la vendita di titoli di cui non si è ancora provvisti. Il fine è quello di mettere un argine alla speculazione “pura”, quella messa in atto da operatori che giocano al ribasso.
Si tratta di una scelta che è stata fatta molte altre volte dalle Autorità di Vigilanza nel corso delle crisi degli anni scorsi, ad esempio quella del 2008 dopo il fallimento di Lehman Brothers, e quella del 2011-12 del debito sovrano.
Si tratta di provvedimenti che, a mio avviso, hanno una valenza più che altro psicologica.
L’evidenza empirica accumulata negli anni mostra infatti che il divieto di vendite allo scoperto non è in grado di sostenere i prezzi di mercato dei titoli, a meno che non siano accompagnato da massicci pacchetti di sostegno all’economia.
E la conferma la troviamo in queste parole pronunciate il 31 dicembre 2008 dall’allora Presidente della SEC Cristopher Cox: “Sapendo quel che sappiamo ora, non lo rifaremmo: i costi sembrano superare i benefici”.
In conclusione, quello borsistico è per definizione un mercato “aperto”, che mal sopporta blocchi o inibizioni.
Per chi in questi giorni, oltre che alla naturale paura dell’epidemia, abbia anche qualche patema per i propri soldi investiti, il consiglio che mi sento di dare è: “in questa fase non guardate il vostro portafoglio titoli!”. Soprattutto se siete deboli di cuore.
Molto cinicamente, se riusciremo a sfangarla con il coronavirus, siate certi che dopo la fine della pandemia le borse schizzeranno in alto; diversamente sarà un problema degli eredi.
E così siamo, in una sorta di gioco dell’oca, ritornati al dilemma iniziale: meglio la vita che la borsa!
Stefano Diceopoli

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