12 Luglio 2016 - 18.33

CALCIO- Le lacrime diverse di Ronaldo e Messi

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di Marco Osti

“Voglio piangere di gioia”.
È stato questo il desiderio espresso da Cristiano Ronaldo alla vigilia della finale dei Campionati Europei, prima che il suo Portogallo giocasse contro la Francia.
E così è stato, dopo la vittoria dei lusitani, alla fine di una partita intensa ed emozionante, decisa ai supplementari dal gol di un ragazzo lungo lungo, nato in Guinea, e chiamato Eder, come l’attaccante dell’Italia.
Ma Ronaldo in quel momento era in panchina a incitare i compagni, zoppicando, perché di lacrime ne ha versate altre, tante, a dirotto, amare, all’inizio della partita, quando dopo solo 24 minuti è dovuto uscire per un infortunio al ginocchio causato da un colpo molto duro, eccessivo nell’irruenza, del francese Payet, uno dei talenti dei transalpini, che poi non ha giocato al suo livello, forse condizionato dalle conseguenze certamente involontarie del suo gesto.
Chissà invece dov’era in quel momento l’altro calciatore che sta segnando questa epoca.
Chissà se Messi ha visto la partita o ha preferito fingere che non lo riguardasse, quando in realtà lui e Ronaldo sembrano indissolubilmente legati in un destino partito da Funchal, paesino del Portogallo, e da Rosario, in Argentina, che li ha fatti ritrovare in Spagna, a Madrid e a Barcellona, a scrivere la storia del calcio moderno.
Anche Messi pochi giorni fa ha versato lacrime amare per la finale di un torneo continentale, quella di Coppa America, che ha perso con la sua Argentina, ai rigori contro il Cile, esattamente come nell’edizione dello scorso anno.
Dopo la partita, finito il pianto, Leo è andato davanti alle telecamere e ha detto che quella sarebbe stata la sua ultima partita con la nazionale, schiacciato dal peso di avere perso quattro finali, considerando anche quella dei Mondiali 2014 contro la Germania e quella, ancora una volta di Coppa America, nel 2007, contro il Brasile.
“Non fa per me” ha detto Messi, per spiegare una decisione che da molti, anche e soprattutto tra i suoi connazionali, viene visto come un atto di codardia.
Ma lui è quello che insieme al suo collega portoghese è il simbolo del calcio moderno, lui ha battuto i record di gol con la nazionale biancoceleste ed è l’unico giocatore che nel suo paese è considerato così forte da potere essere paragonato a Maradona.
Quindi se a dire “non fa per me” è lui, allora diventa anche difficile giudicare cosa evidentemente prova questo ragazzo, coperto di gloria, soldi e record, che con la maglia dell’Argentina non ha mai vinto i tornei che dovrebbero consacrarlo al pari di quel Diego al quale viene sempre e comunque paragonato.
Maradona portò con i suoi gol e tutto il suo carisma l’Argentina a vincere i Mondiali del 1986 in Messico e Messi non c’è mai riuscito, al punto che se anche avesse vinto la Coppa America, comunque per molti non sarebbe stato sufficiente per paragonarlo all’icona Diego.
Non basta mai quello che fa Leo, ma lui dice che più di così non può fare e quindi molla la nazionale, per ora, almeno, perché i ripensamenti sono sempre possibili.
In questo gesto può non esserci viltà, ma solo l’umana e umile accettazione di un proprio limite, della incapacità di poter competere con l’ombra che tifosi, stampa e connazionali sempre gli prefigurano di fronte, come fosse una colpa essere ora il più forte al mondo, ma connazionale di chi l’ha preceduto e viene considerato insieme a Pelè il più grande di sempre.
Maradona ora dice a Messi di non lasciare la nazionale, ma finora non ha mai mancato di assecondare il fatto che lui resta il migliore, favorendo quel dualismo che evidentemente ora per Leo è diventato insopportabile.
Così, mentre a Messi l’estate riserva anche la condanna in Spagna per evasione fiscale, il suo alter ego portoghese diventa campione d’Europa, con una nazionale che non aveva mai vinto nulla e aveva perso l’unica finale giocata, ancora in un Europeo, quello organizzato in casa nel 2004, contro la Grecia.
Ronaldo voleva cancellare quella sconfitta e portare il suo Paese a vincere il primo trofeo della sua storia.
Il Portogallo ce l’ha fatta e lui l’ha trascinato durante il torneo, ma la finale non l’ha di fatto giocata. La partita l’hanno vinta i suoi compagni, lottando e correndo, senza usare l’assenza del loro campione come un alibi, ma anzi, come motivo per dare anche più di quello che si pensava fosse loro possibile.
Hanno vinto anche per lui, che li ha sostenuti e incitati, sapendo che è il loro leader.
A vincere però è stata la squadra, come un gruppo di persone unite e determinate, che riconoscono i propri pregi e limiti e i ruoli al proprio interno, dove tutti hanno un compito e un valore.
Quello che era anche l’Argentina di quel lontano 1986, che Maradona trascinò per tutto il torneo, ma in finale vinse 3-2 contro la Germania senza che lui fece gol.
Quello che non riesce a essere l’Argentina di oggi, perché il Mondiale e l’ultima Coppa America li ha persi soprattutto quando Higuain ha sbagliato solo davanti al portiere i gol necessari per trionfare nelle finali che Messi aveva consentito di conquistare in modo determinante.
Ronaldo dopo questa vittoria conquisterà il suo quarto Pallone d’Oro, avendo vinto con il Real Madrid anche la Champions League, avvicinandosi ai cinque vinti da Messi, così la loro sfida a distanza continuerà.
Un po’ come moderni e calcistici Peppone e Don Camillo, rivali, uguali e diversi, ma sempre attenti ai risultati dell’altro per superarli, maniacali nel lavoro per fare rendere al massimo il loro genio calcistico, mai soddisfatti fino in fondo, perché anche quando fanno tre gol in una partita cercano il quarto e poi il quinto e il giorno dopo sono di nuovo ad allenarsi per migliorarsi ulteriormente, con una ferocia che fra loro contribuiscono ad alimentare e dimostra che il talento da solo non basta per essere campioni.
Come la vittoria del Portogallo dimostra che un campione non può vincere da solo.
Così, asciugate le lacrime, ci piace immaginare che Cristiano farà una telefonata a Leo per dirgli tornare a giocare con la nazionale Argentina.
Forse solo lui può convincerlo.
Per il bene della loro rivalità, ma soprattutto dello sport.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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